Forte, entusiasmante, coinvolgente.
La voce dei Led Zeppelin, la voce dell’hard rock, la voce che ha incantato tantissime generazioni, quella che ha scritto la storia, ispirando tantissimi, emozionando tantissimi.
Robert Plant con il suo stile, con la sua grinta ha eccitato il pubblico della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica -Roma- la sera del 12 luglio. Il celebre cantante, accompagnato dai travolgenti Sensational Space Shifters, ha regalato emozioni agli spettatori. Si osservavano adolescenti che, come me, indossavano la maglia degli Zeppelin accanto a uomini adulti, i veterani. Per quanto il divario fra età fosse a dir poco evidente, eravamo tutti uniti da quella voce, la voce, seppur di un ultra sessantenne, per me, più bella e potente.
Un concerto bramato da anni, ne ho 17 e ascolto il vero rock da quando ne ho 12, si è aperto con le note di No quarter – brano di Houses of the Holy – reinterpretato dagli Space Shifters ma, sicuramente, magnetico come l’originale. Il pezzo successivo, Down to the sea, si distingue per l’eccezionale basso di Billy Fuller. Dopo una piccola pausa, durante la quale Plant ha salutato gli spettatori, presentato fugacemente i vari componenti della band, viene suonata Spoonful, un atto di ossequio a Willie Dixon. Si entra, veramente, nel vivo del concerto: Plant coinvolge il pubblico, ricorda loro come era un tempo, quando impugnava il microfono e dispensava sensazioni appassionanti, veementi grazie alle sue urla, straordinarie. Così inizia Black dog, così tutto si elettrizza e la serata si avvia per essere indelebile, nella memoria di tutti i presenti. Immancabile il botta e risposta degli “Ahh , ahh” fra Plant e pubblico, un brivido lungo la schiena: non avrei mai creduto di poter farne parte. Un’altra pausa, la presentazione del nuovo disco Lullaby and…the Ceaseless Roar, che uscirà il prossimo settembre, l’ascolto di Rainbow canzone, per l’appunto, presente nel futuro album e l’eccezionale Plant che si diverte, insieme ad altri componenti del gruppo, a suonare un tamburo. Sorpresa da come un uomo di quell’età potesse essere affascinante, ho realizzato, solo grazie al pezzo successivo, Going to California, quanto gli anni passati non lo hanno cambiato, sì, è innegabile che l’estensione vocale sia diminuita, ma è, contemporaneamente, innegabile che sia ancora fantastica. “Tu sei Dio” gli hanno gridato, “Sì” è stata la risposta. Il brano successivo è stato The Enchanter, una canzone che, personalmente, adoro, probabilmente per le belle parole.
Con Babe, I’m gonna live you la platea si scalda: alcuni non trattengono più le emozioni, si alzano, muovendosi a ritmo, cantando a squarciagola, era quasi un inno, tutti percepivamo il bisogno di partecipare, seppur stonando, non potevamo agire diversamente. Little Maggie, altra canzone presa da Lullaby and…the Ceaseless Roar, è stata l’occasione in cui Plant ha dimostrato tutta la sua modestia: ha infatti introdotto, con i dovuti particolari, i membri del suo gruppo, esaltando le loro capacità, mettendoli al suo stesso livello, non ha ostentato alcun segno di superiorità; probabilmente, tale comportamento è l’ennesima dimostrazione della sua grandezza, sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista musicale.
E adesso siamo quasi alla fine, e inizia a scendere qualche goccia di pioggia, e sul palco iniziano nuovamente a suonare, è il turno di Whole lotta love. Tutti, grandi e piccini, ci ritroviamo sotto il palco, per scatenarci, di nuovo insieme, stonando ancora, sempre perché sarebbe stato impossibile agire diversamente. Terminata la canzone, Plant si ritira, lo acclamiamo, urliamo il suo nome, finché non torna sul palco con una birra in mano, pronto per esibirsi ancora, questa volta sotto una pioggia più incombente, Turn it up è stato il primo pezzo e poi, per concludere, c’è stata la mitica, unica Rock & Roll, la stessa canzone che un tempo apriva i concerti del Led Zeppelin, quella sera invece ha concluso il mio primo, vero concerto. Una serata forte, entusiasmante, coinvolgente esattamente come la sua voce.
Di Maria Cristina Ianiro