Lonely Boy – La storia di un Sex Pistol

C’è un amore che continua a farmi aspettare, sono un ragazzo solitario“, recita un passaggio del brano Lonely Boy dei Black Keys. Di certo Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols – gruppo punk rock per antonomasia, giunto al capolinea nel 1978 – non ha mai amato aspettare. E quello che ha voluto se l’è preso. Meglio ancora: conquistato. E lo narra nell’avvincente autobiografia Lonely Boy, la storia di un Sex Pistol per Magazzini Salani. Un racconto schietto, duro e ironico intriso di aneddoti e avventure sviscerati senza fronzoli, scritto a quattro mani con il giornalista musicale e autore Ben Thompson. Dal libro (288 pagine, 16.90 euro) è tratta la miniserie Pistol, su Disney+, ideata da Craig Pearce e diretta da Danny Boyle, l’autore di Trainspotting (Jones è interpretato da Toby Wallace).

Non ho idea di come apparirà la mia storia una volta messa su carta. Quello di cui sono certo è che non ne uscirà una bella immagine di me”, ammette Jones, improbabile eroe della sei corde che con i “Pistols”, fondati circa mezzo secolo fa insieme a Paul Cook (batteria), John Lydon (meglio conosciuto come Johnny Rotten alla voce, ha definito “irrispettosa” la serie in sei episodi) e Glen Matlock (basso), ha dato vita a una delle più conosciute punk band della storia. Il tutto sotto l’ala protettiva di quel geniaccio anticonformista che era il loro bizzarro manager e partner in affari, Malcolm McLaren.

Una band di “scappati di casa” tra le più influenti e decisive di sempre, che annovera un unico album ufficiale in studio: Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols (1979) – con Sid Vicious al basso nei brani Bodies e Holidays in the Sun – più diversi singoli, numerose raccolte (sia ufficiali sia bootleg) e il disco The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, soundtrack della pellicola diretta da Julien Temple, La grande truffa del rock ‘n’ roll (falso docufilm che narra in modo volutamente romanzato la nascita, l’ascesa e lo scioglimento della band, il tutto dal punto di vista di McLaren).

Da allora ne è passata di acqua – pardon, di birra – sotto i ponti, e oggi Jones (musicista, produttore discografico e attore, nato a West London nel 1955), vive a Los Angeles dove dal 2004 conduce il programma radiofonico Jonesy’s Jukebox. A questo proposito, nella prefazione del libro (tradotto in Italia da Alessandro Apreda, conta uno sfizioso inserto fotografico con scatti in bianco e nero), la cantautrice statunitense Chrissie Hynde, conosciuta per essere leader del gruppo The Pretenders, lo definisce “un timido teppista della zona nord ovest di Londra. Quando la band si sciolse, fece come Lemmy e fuggì a Los Angeles”.

Il racconto di Steve, però, comincia nelle strade di Hammersmith e Shepherd’s Bush, dove un giovane trascurato (“molte cose successe quando ero un ragazzino mi hanno incasinato e me le porto dietro ancora oggi”), che vive alla giornata tra espedienti e furtarelli, trova un obiettivo nel glam rock dell’uomo delle stelle David Bowie e dei Roxy Music, ritenuti tra le principali influenze per il movimento musicale new romantic e synth pop dei primi anni Ottanta.

Quindi il solitario Jones (“l’unico raggio di sole che illuminò la vita in questo periodo buio e deprimente fu il fatto che avevo un cane”) entra a far parte, di diritto, della prima generazione di punk teppisti – non è un caso che nel libro venga citato Arancia meccanica (1971), il capolavoro di Stanley Kubrick, nel quale il cineasta tratteggia il percorso di Alex, da punk amorale a rispettabile cittadino, previo lavaggio del cervello – sotto lo sguardo di McLaren e dell’icona inglese Vivienne Westwood.

Per la prima volta, l’ex chitarrista dei Pistols – che nella sua carriera annovera anche due album da solista, Mercy e Fire and Gasoline, rispettivamente del 1987 e 1989, nonché il disco Neurotic Ousiders (1996) pubblicato con l’omonima superband composta da lui, Duff McKagan, John Taylor e Matt Sorum – descrive l’angoscia per non aver conosciuto suo padre, l’abbandono e l’abuso che ha subito per mano del patrigno. E in che modo il suo viscerale interesse nei confronti della musica e della moda lo abbia tratto in salvo da una potenziale esistenza orientata al crimine, trascorsa all’interno dei centri di detenzione e in prigione.

Dalla King’s Road (che taglia il quartiere di Chelsea fino alla Sloane Square) dei primi anni Settanta, attraverso gli anni dei Sex Pistols, il punk rock e la registrazione di Never Mind the Bollocks (tra i migliori album di ogni tempo per la rivista Rolling Stone, ed è sufficiente snocciolare l’elenco delle dodici tracce per comprendere il suo impatto: Holidays in the Sun, Bodies, No Feelings, Liar, God Save the Queen, Problems, Seventeen, Anarchy in the U.K., Submission, Pretty Vacant, New York, E.M.I.). Un disco che ha fatto conoscere la band al grande pubblico, decretandone il successo. Che spesso è un’arma a doppio taglio, come ammette il nostro nella sua biografia: “Meglio stavamo, meno potevamo mostrarlo. Mi sentii in colpa solo per aver pensato di acquistare un’auto”.

E ancora, Jones narra l’esilio autoimposto a New York e Los Angeles, dove è stato rapito dalla passione per le moto (“passare a un Harley in America fu un tradimento delle mie radici da skinhead“) ma, soprattutto, è qui che ha intrapreso un’incessante lotta contro l’alcol, l’eroina e la dipendenza dal sesso. Stretto all’interno di un circolo di riabilitazione e ricadute, che è tipico (purtroppo) di ogni rockstar che si rispetti. Tutto questo lo ha portato dentro Lonely Boy, una storia senza filtri, un volume contraddistinto “dall’autoironia con cui racconta i suoi aneddoti, da un candore forte come un riff iniziale di God Save the Queen dei Pistols”, scrive il Washington Post.

In coda al libro, cominciato a scrivere nel 2016, Jones stila poi un personalissimo elenco delle cose che non sono rock ‘n’ roll (“non sono un ipocrita, so di aver sbagliato in alcuni punti anch’io, ma le regole sono fatte per essere infrante”) e oggi – alla soglia dei 70 anni – ammette senza mezzi termini che pensava a questa pubblicazione da molto tempo. “Per raccontare la mia parte della storia dei Sex Pistols, perché fino ad ora si è sentita solo una campana e in realtà la questione è piuttosto complessa”.

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