Donne del Rock: Amy Lee

Ogni tanto bisogna fermarsi, andare magari in controtendenza, e poi valutare se riprendere il percorso interrotto o iniziarne uno nuovo. È ciò che in molti stiamo vivendo in questi giorni di quarantena preventiva anti-Coronavirus, ed è quello che accadrà anche nelle nostre biografie rock al femminile. Dopo una variegata serie di donne imprevedibili, ribelli, maledette, ecco a voi una specie di donna “tutta d’un pezzo”: virtuosa e consapevole di esserlo, bella senza mai cedere all’esibizionismo, tosta ma senza scadere nello sboccato. Insomma, una “secchiona” del metal: Amy Lynn Lee Hartzler o, più semplicemente, Amy Lee.

Il suo esordio non è stato del tutto in discesa: ancora adesso il suo eclettismo (voce, pianoforte, chitarra, organo, arpa…) non la mette al riparo da quanti, a distanza di anni dal suo esordio con gli Evancescence, si ostinano a rimproverarle (forse con una punta d’invidia) un’incompleta padronanza della tecnica vocale. Ed è piuttosto curioso, perché Ben Moody, che fondò la celeberrima band insieme con lei, raccontò di averla scoperta (e convinta a collaborare) proprio dopo averla casualmente intercettata mentre improvvisava un’esibizione a un campo giovani nel 1995: “Quasi ci rimasi secco. In quel minuscolo campo giovani vi era una delle voci più potenti e belle che avessi mai sentito.

Gli esperti di astrologia diranno che il suo successo era già scritto nelle stelle: nata alle 18:50 del 13 dicembre 1981 a Riverside, California, nel suo tema natale troviamo il Sole in Sagittario (ottimismo e onestà, con un’immediatezza che involutamente può arrivare a ferire), la Luna in Leone (bisogno di ottenere lodi e riconoscimenti – anche sotto i riflettori – e determinazione da vendere per ottenerli) e un ascendente in Cancro che, nel confermarle la profonda sensibilità tipica degli artisti, la induce a chiudersi a riccio per la consapevole vulnerabilità emotiva.

Detto tra noi, non c’era bisogno di scomodare gli oroscopi (che probabilmente nemmeno apprezzerebbe più di tanto, religiosa com’è) per prevederne la predisposizione artistica e soprattutto musicale. Figlia d’arte, deve innanzitutto al proprio padre, John Lee (cantante polistrumentista e poi dj presso la radio KDRE-FM 101.1 di Little Rock), non solo i magnetici occhi di ghiaccio, ma anche l’amore per la musica. La piccola Amy “nasce” infatti pianista classica ma poi, durante la transizione adolescenziale dall’amato Mozart (da piccola sognava un futuro come compositrice) alle più moderne Bjork, Plumb e Tony Amos, decide di esplorare anche le possibilità offertole dal proprio potente timbro vocale mezzosoprano. E, come appunto riscontrò anche Moody qualche anno dopo, la prova non andò così male.

Della sua infanzia, a parte i vari traslochi da uno stato all’altro degli USA (Kansas, Florida, Illinois…), ufficialmente si sa poco. Sappiamo che è la primogenita del matrimonio tra gli appena ventenni  John e Sara Cargill (1977) e che ha condiviso da sempre l’amore per la musica anche con il fratello Robby (nato nel 1993) e le “sorelline” Carrie (nota per la sua avversione all’invadenza tanto dei fan degli Evanescence che degli organi di stampa) e Lori ( ora vocalist di due band, Solstice e Scarlett Seven). Carrie e Lori hanno fatto poi da seconda voce per Call Me When You’re Sober  (singolo che lanciò The Open Door, 2006) e tutti insieme, dieci anni dopo, hanno collaborato vocalmente alla registrazione delle musiche per bambini contenute in Dream too much. Carrie ha infine scritto anche la sceneggiatura del video di What you want, con cui gli Evanescence lanciarono il loro terzo album.

Dobbiamo però cercare altrove per ricomporre il carattere sensibile e schivo di questa paladina – suo malgrado – del metal goth (eh sì: perché – a suo dire – il suo amore per i corsetti vittoriani e il make up darkeggiante è del tutto casuale e scollegato da qualunque approfondimento filosofico e artistico della subcultura goth. Salvo poi confermare, in altre sedi, la sua passione per il cinema horror e per Tim Burton).

Intanto, un episodio che sicuramente la segnò indelebilmente fu la prematura scomparsa della sorellina Bonnie, in circostanze mai chiarite che la spensero nel 1988 a 3 anni: fu “solo” un attacco di epilessia? Un’altra malattia mai diagnosticata? O addirittura – come si vociferò per un certo periodo – un annegamento accidentale nella vasca da bagno, conseguente a un attacco epilettico di per sé non letale? La famiglia Lee in proposito ha – giustamente  – preteso di mantenere la massima riservatezza; e a questo lutto mai del tutto rielaborato Amy ha dedicato due dolorosissime canzoni, Hello (2003) e Like you (2006).

È anche noto come l’epilessia affliggesse da sempre Robby, l’amatissimo “fratellino” scomparso nel 2018 (e salutato da Amy così: “If you knew my family, you knew him. He was […]our hero. He inspired and influenced so many people. […] Robby battled severe epilepsy since he was 7 and we always knew our time together was precious – he loved like every day could be the last. […] May we all live like that – don’t waste any time. I love him more than I could ever say in words, and I will miss him every day for the rest of my life.”). Non sembra dunque così casuale che Amy nel 2005 abbia fondato l’associazione Out of the Shadows di sensibilizzazione intorno al problema dell’epilessia.

Comunque, l’ombra della malattia e la precoce consapevolezza della caducità della vita umana sembrano essere stati determinanti nella maturazione umana e artistica di Amy, se è vero quanto dichiarò a Blender Magazsine nel 2004, a partire dalla scomparsa (solo accennata) della piccola Bonnie:

When that happened, my whole perception of life changed. It sounds stupid, but that was when I became an artist. The music is my attempt to heal myself. Things like that can destroy you, or you can get through it.”  Lee’s gray-blue eyes fill with tears. Her voice wobbles. […] She says she won’t reveal her sister’s name, because it would be too weird to see it in print. It would upset her mother, she says, and – you never know – fans might try to find her grave. […] “My sister’s death taught me how short life can be, and it has driven me to achieve things. I have a list of 50 thing I want to achieve. Not necessarily in entertainment, just personal goals. Life’s fragility drives me on.

Insomma, nel profondo della promettente compositrice dallo sguardo glaciale (spesso additata dai coetanei come choir nerd), che dirigeva il coro del liceo prima ancora di diplomarsi presso l’Accademia Pulaski di Little Rock (2000) forse rimaneva ancora qualcosa della tenera Amy che, innamorata di un compagno di classe delle elementari (tale Wade), ne rincorreva la mamma per confidarsi con lei, precisando subito dopo: “Ok, that’s all, don’t tell him, bye.”. O dell’animo altruista che, quando ancora non immaginava un futuro nella musica, ipotizzava di dedicarsi al prossimo come assistente sociale. La sensazione che rimane abbandonandosi ai suoi melodici lamenti è che tra l’ingenua fragilità dell’infanzia e la dolorosa consapevolezza dell’adultità si sia in lei frapposto un velo onirico di sublimazione: quella forza “ultraterrena” che – pare – ne abbia da sempre contraddistinto la vis creativa, che si tratti di comporre una melodia durante la fase REM per poi appuntarsela non appena sveglia  (è successo, ad esempio, per Secret Door, 2011) o di immaginare, nel dormiveglia, una possibile cover di With or without you degli U2 con synth e voce.

Resta il fatto che, come lei stessa ha sottolineato ripetutamente, la musica per lei è stata innanzitutto terapia. E questo lo dimostra più di ogni altra cosa il sound della band, esordita con toni inquietanti e drammatici, nel 1995, e poi evolutasi (come testimoniato anche dal look, nel tempo divenuto meno vittoriano e più neo-goth) in una direzione più elettronica e nu metal man mano che anche nella sua vita privata trovavano maggiore spazio l’accettazione e la serenità.

Le soddisfazioni con gli Evanescence, nonostante i molti cambi di formazione (tra cui l’abbandono di Moody, nel 2003, sopraffatto dal proprio disturbo bipolare e arrivato a un punto di rottura con Amy) non sono certo mancate: da My Immortal che diventa la colonna sonora di Daredevil (2003), due Grammy Award nel 2004 (Best Hard Rock Performance e Best New Artist), un disco di platino negli Usa una settimana dopo l’uscita di The Open Door (2006), un unplugged e  un’esibizione come co-headliner degli amati Korn nel 2007, il maggior numero di singoli primi in classifica nella Official Rock &Metal Chart del 2011. Ma non sono state sufficienti a evitare uno stop.

Le motivazioni ufficiali circa il nuovo percorso solista di Amy si riferiscono al bisogno di esprimersi diversamente: “Io non voglio essere Amy Lee degli Evanescence, io voglio essere me stessa“.  Ma forse dietro a questa scelta c’è anche qualche affaticamento di troppo: una frattura irreversibile con il manager Dennis Rider (lui la denuncia per mancati pagamenti; lei risponde attribuendogli gravi negligenze professionali e denunciandolo per molestie e varie altre scorrettezze – tra cui il “ricorso” alla sua carta di credito per comprare all’amante un’auto da 18.000 dollari di nascosto alla propria moglie); la fine della relazione con Shaun Morgan degli Seether (con cui aveva anche composto la rock-ballad Broken per la colonna sonora di The Punisher) a causa della sua dipendenza da alcool e droga. E anche qualche svolta positiva: il fidanzamento e matrimonio (2007) con l’amico di vecchia data (e psicoterapeuta) Josh Hartzler (a cui dobbiamo probabilmente anche l’avvicinamento di Amy all’arpa, oltre che l’idea di devolvere i ricavati di Together Again ai superstiti del terremoto di Haiti nel 2010) e qualche progetto per una nuova vita a due (tra cui un figlio: il biondissimo Jack Lion, che nascerà poi nel 2014, in tempo per riuscire a “cantare” insieme allo zio Robbie Hello, Goodbye, nel 2016 ).

Se a questo aggiungiamo una causa alla storica casa discografica degli Evanescence, la Wind Up, intentata da Amy nel 2014 per il mancato versamento di oltre un milione di dollari di royalties, e il fatto che la stessa ne uscì come artista (finalmente) indipendente e libera da vincoli di sorta (tranne un “accordo di non divulgazione” che le impone di mantenere il riserbo sulla faccenda) è facile intuire che un ritorno agli Evanescence delle origini, almeno nelle intenzioni della loro fondatrice, non è molto probabile. Con buona pace dei fan di vecchia data.

Al contempo, la nuova Amy, e la sua immagine più intima e quasi domestica (che non disdegna neppure occasionali incursioni nei look pastello), ci consente di forse di apprezzarla artisticamente in modo più completo, e senza nulla togliere alla metal vocalist che calcava palchi in giro per il mondo – mentre, probabilmente, era alla continua ricerca di sé. Una donna ancora volitiva e connotata da una forte tensione spirituale (“I definitely have always been fascinated with the darker side of things–death, the afterlife–sort of these things that I don’t really understand and maybe never will”), ma più matura (anche in termini di tecnica vocale) e davvero pronta a tutto (“I’m not scared to die but I’m scared of the separation that death causes”).

Quando avremo nuovamente modo di apprezzarla dal vivo davanti a uno Shure, magari mentre accarezza i tasti del suo Baldwin Custom (un pianoforte – dicono – tarato sulle ottave della sua estensione, che l’ha seguita nelle principali tournée – grazie anche al suo essere montato su rotelle)? Con i tempi che corrono, davvero non ci è dato saperlo.

Per ora, visto che anche noi, volenti o nolenti, stiamo attraversando una fase decisamente domestica, potremmo provare a farci accompagnare dal video che Amy, circondata dalla sua collezione di tastiere e synth (e… sorpresa! Compare anche un ukulele!) ha realizzato per l’hashtag #togetherathome promosso dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità. Un bel modo per offrire al mondo un po’ di serenità, dopo aver trovato la propria.

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