Iron Maiden – Seventh Son of a Seventh Son

Era l’11 Aprile del 1988, e nei negozi di dischi (anticipato dal singolo Can I Play With Madness, il 13 Marzo di quell’anno) arrivò il settimo sigillo della vergine di ferro. L’album più sperimentale nonché uno dei più leggendari, l’ultimo album con il chitarrista Adrian Smith prima dello split. Seventh Son Of A Seventh Son, un concept album sulla figura folkloristica del settimo figlio di un settimo figlio, dai temi mistici e profetici. Disco caratterizzato da un sound malignamente heavy, ma anche da una spiccata vena progressiva che fece da apripista ad altri futuri album. Le tastiere, come il Guitar Synth, ritornano prepotentemente come nel precedente lavoro in studio Somewhere in Time, amalgamandosi perfettamente con il sound oscuro; rendendo l’atmosfera dell’album incredibilmente affascinante, glaciale ed oscura. Il platter è stato registrato nel 1987 nei Musicland Studios di Monaco in Germania, dal produttore Martin Birch e distribuito dalla EMI. Artwork iconico, una delle migliori copertine mai disegnate da Derek Riggs che entrerà nella leggenda tra i lavori più famosi dell’artista inglese.

Intro acustica con Bruce Dickinson che intona il versetto del settimo figlio come un menestrello, aprendo le danze all’aggressiva Moonchild; riff iniziale da brividi con un crescendo assieme ai synth, il tutto sfociando in un classico brano maideniano, dove vede il frontman davvero in forma smagliante assieme a Steve Harris. È un brano oscuro, ma dannatamente heavy; la tematica del brano è il Liber Samekh’ contenuto nel libro di Aleister Crowley, un grande inizio. La seguente Infinite Dreams è pura libidine per chi ama gli Iron Maiden, un brano che inizia in maniera cadenzata e melanconica, ma è soltanto l’inizio del grande tornado di emozioni; questo brano vede gli irons in grande spolvero sotto tutti i punti di vista: quello delle emozioni, del songwriting e soprattutto della compositività, un brano che vede duelli chitarristici tra Adrian Smith e Dave Murray, alla voce Bruce Dickinson davvero superlativo, soprattutto nelle strofe centrali e finali.
La successiva Can I Play With Madness, non è un brano molto pretenzioso, ha un ritornello molto semplice, un brano musicalmente che può risultare un po’ banale, ma che rimane tra le hit della vergine di ferro (contrariamente il video del singolo è davvero divertente). Il brano successivo The Evil That Man Do argomenta la tragedia di Shakespeare ‘Giulio Cesare’; si tratta di pura apoteosi maideniana: riff granitici, melodie meravigliose e ritornello tra i più belli mai ascoltati; da cantare a voce alta ad ogni concerto, immancabile nelle setlist live.

Finalmente arriviamo all’apice di questo concept, ovvero la title track, 9 minuti di pura e drammatica epicità; il brano più prog dell’album, intro maestosa con un Bruce superlativo per tutta la durata del brano. Il break centrale dell’album è qualcosa di inquietante, ma al contempo affascinante. Il duo batteria e basso ipnotizza l’ascoltatore fino alla parte parlata di Bruce, come sempre molto teatrale nelle strofe; seguirà un crescendo della tastiera e atmosfera che si fa sempre più mistica e intensa fino alla parte finale dove le melodie si riaccendono in un connubio aggressivo di tastiera, guitar synth, assoli e riff per un gran finale; degna conclusione di un brano di altissimo livello.
The Prophecy ha il compito di calmare l’atmosfera con un brano più melodioso e più classico, interessante l’outro acustica, davvero pregevole. Segue un altro dei brani più importanti, se non uno dei più conosciuti della loro discografia, The Clayrvoiant; intro davvero emozionante con il classicissimo giro di basso dell’inossidabile Steve Harris, sfociando in tutta la sua bellezza, con dei riff memorabili, e Bruce Dickinson impeccabile nelle tonalità alte; dannatamente epico. Il concept album si conclude con Only The Good Die Young, classica cavalcata maideniana. Brano tirato senza lode e senza infamia, che conclude degnamente il primo ed unico concept album della vergine di ferro.

Questo album è un Must Have fondamentale per chi ama il genere, un lavoro che non cala mai l’attenzione, ma che durante il track by track sa tenerti incollato alle cuffie ed esaltarti dall’inizio alla fine come forse pochi album riescono a fare. Dall’intro iniziale fino all’outro finale, un oscuro e mistico viaggio sulle vicende del settimo figlio di un settimo figlio, un viaggio dove gli inglesi esplorano melodie meno dirette ma più prog. Le tastiere che fecero capolino nell’album precedente, ripetono il loro egregio lavoro nel sound, aggiungendo maggiore atmosfera ed epicità ad ogni brano. Questo full-length è il chiaro esempio di capolavoro, se non uno dei migliori o il migliore album della vergine di ferro.

Tracklist:
1. Moonchild
2. Infinite Dreams
3. Can I Play With Madness
4. The Evil That Man Do
5. Seventh Son Of a Seventh Son
6. The Prophecy
7. The Clayrvoiant
8. Only The Good Die Young

Line-Up:
Voce – Bruce Dickinson
Chitarra – Adrian Smith
Chitarra – Dave Murray
Basso – Steve Harris
Batteria – Nicko McBrian

Anno: 1988
Etichetta: EMI
Voto: 9.5/10

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