Bruce Dickinson – The Mandrake Project

Anno: 2024
Etichetta: BMG Records
Voto: 7.5/10

Classificazione: 3.5 su 5.

Dopo un lungo periodo di 19 anni, finalmente il frontman degli Iron Maiden, Bruce Dickinson, fa ritorno con un suo nuovo e atteso album solista intitolato The Mandrake Project, il settimo, annunciato verso la conclusione del 2023. Questo annuncio è stato preceduto dal rilascio del singolo introduttivo Afterglow of Ragnarok, accompagnato dal primo numero del fumetto graphic novel incluso nel vinile 7. Si tratta dell’incipit di una serie di fumetti legati al progetto, che costituirà un’opera multimediale completa. Il fumetto è realizzato in collaborazione con Z2 Comics e vanta i disegni di Staz Johnson, con la sceneggiatura firmata da Tony Lee e Bruce Dickinson. L’autore spiega che la storia è un racconto adulto che affronta temi di potere, abusi e lotta per l’identità, distribuito in 12 episodi e raccolto in tre graphic novel, in arrivo l’anno successivo. Naturalmente, il singolo è stato accompagnato dal consueto video, mentre per l’album previsto per l’uscita il primo marzo è stato anticipato anche da un secondo singolo intitolato Rain on the Grave. Questa volta non è stata prevista una versione fisica, ma è stato realizzato un video più divertente e irriverente rispetto al precedente dove c’era maggiore epicità. La formazione della band vede la presenza dell’inossidabile e talentuoso Roy Z alla chitarra e al basso. Alle tastiere abbiamo il rinomato Maestro Mistheria (Vivaldi Metal Project), già presente nell’album precedente Tyranny of Souls. Infine, alla batteria c’è Dave Moreno (Puddle of Mudd), anch’egli presente nel disco precedente. Il tutto è stato prodotto da Roy Z e distribuito dall’etichetta BGM.

Questo nuovo platter è l’esempio di come due artisti, se gli dai carta bianca e totale libertà creativa possono crearti un lavoro davvero variegato ed ispirato, Bruce Dickinson ne è l’artefice assieme Roy Z, abbracciando con gioia elementi eterogenei: dall’hard rock alla sinfonia, dalle atmosfere da colonna sonora all’impiego incisivo delle tastiere, le quali frequentemente rivestono un ruolo tanto rilevante quanto le chitarre nell’articolazione degli arrangiamenti.
Il brano inaugurale, nonché il primo singolo Afterglow of Ragnarok, si presenta cupo e contemporaneo, arricchito da un ritornello ben strutturato e da riff estremamente potenti di Roy Z, che conferiscono alla composizione l’epicità e l’impatto giusto. Continuando con Many Doors To Hell‘, si delinea un brano dall’atmosfera radicalmente differente rispetto all’opener, richiamando sonorità vicine al primo album solista, Tattooed Millionaire. Qui troviamo riff freschi e leggeri, accompagnati da un uso efficace dei sintetizzatori a supporto. Il risultato è un brano piuttosto divertente, con Bruce Dickinson che offre una performance solida, pur mantenendo tonalità classiche.

La successiva traccia, nonché secondo singolo dell’album, Rain of the Grave, La composizione è nata da una visita sotto la pioggia alla tomba del poeta William Wordsworth nel Lake District inglese. Questo brano si è evoluto in una meditazione sulla natura della finitezza umana e sul legame con il Maligno che molti artisti avvertono di stringere, tema reso celebre già negli anni ’30 da Robert Johnson, il brano si avvicina deliberatamente alle sonorità degli anni ’70, mentre a livello vocale sembra richiamare il cantato simile degli anni ’90 per aggiungere un tocco di atmosfera horror al brano con parti anche parlate. Nonostante un video abbastanza divertente, alla fine dei conti, si tratta di un brano solido, senza troppi fronzoli.
Invece con la quarta traccia, Resurrection Man, incarna perfettamente l’abilità di fondere elementi rock con atmosfere tipiche delle colonne sonore di Morricone, evocando l’epica dei film western. Bruce Dickinson, talvolta, si avventura in tonalità insolite rispetto al suo stile consueto, mentre Roy Z dimostra una vera ispirazione, contribuendo a creare un brano certamente fuori dagli schemi ma di grande impatto ed uno dei migliori momenti di questo nuovo album.

Cambiamo radicalmente registro con la successiva traccia, Fingers In The Wounds, dove il protagonista indiscusso è il nostro Maestro Mistheria, il quale domina le sonorità per gran parte del brano. Qui troviamo una notevole dinamicità sia nelle sonorità che nei cambi di tempo, con passaggi enfatici che si trasformano improvvisamente in sonorità orientali, evocando persino brani storici come ‘Kashmir’ dei Led Zeppelin, tutto bello ma dalla durata purtroppo breve.
Un’inaspettata e piacevole sorpresa emerge con il rifacimento di If Eternity Should Fail, ora ribattezzata Eternity Has Failed. Più breve, più lenta, più intensa e più cupa rispetto alla versione che abbiamo ascoltato dal 2015, questa rappresenta tecnicamente la sua forma originale, evidenziando l’immensa mole di lavoro necessaria per completare questo album. Tuttavia, resta una canzone straordinaria, decisamente migliorata rispetto all’originale grazie alla sostituzione della finta tromba dell’introduzione con un autentico flauto. L’essenza iconica del pezzo emerge ancor più chiaramente nella parte strumentale, dove diventa evidente il motivo per cui Steve Harris abbia fortemente voluto includere questo brano in The Book Of Souls: qui Dickinson opta per conservare un’atmosfera molto simile a quella originale, mentre Roy Z dimostra la sua completa padronanza anche quando deve assumere i ruoli dei vari chitarristi maideniani, Le strofe subiscono delle modifiche significative, con una efficacie rielaborazione del testo. Questo riduce la durata del brano di circa un minuto e 20. Un esempio di questa sintesi è il monologo finale di Necropolis, ora ridotto ad una sola frase. Nella successiva Mistress of Mercy, ci immergiamo in sonorità che richiamano il metal degli ultimi anni ’90, con un ritorno all’heavy metal più puro. I riff potenti di Roy Z ci riportano agli anni di Accident of Birth o Chemical Wedding. Tutto sommato è un buon brano, ma non raggiunge la trascendenza, ma pur sempre una buona occasione.

Arriviamo finalmente all’ottava traccia, uno dei momenti più attesi dell’album: la ballad. Bruce Dickinson, nei suoi lavori solisti, ci ha abituati ad emozionarci, basti pensare a Tears of the Dragon o alla oscura ma coinvolgente Man of Sorrow. Questa volta, il brano è pervaso da una profonda malinconia, scandita magistralmente dall’arpeggio iniziale della chitarra acustica e dal tocco emotivo del pianoforte, che conferisce un’ulteriore spinta alle emozioni. La canzone ricorda molto lo stile di Navigate Seas and the Sun, è un ottimo brano, intenso ed emozionante. Nonostante il ritornello ripeta molte volte il titolo della canzone, non risulta mai noioso, rimanendo fresco e coinvolgente.

E ora ci troviamo davanti a un altro dei pezzi migliori dell’album, Shadow Of The Gods, una traccia che inizia in modo delicato, quasi come una ballad, con Bruce Dickinson che esprime tonalità malinconiche e drammatiche. Il brano è un vero crescendo, reso possibile anche dall’eccezionale lavoro del nostro connazionale Mistheria, il quale ha offerto una performance veramente magistrale,. Il brano in crescendo sfocia infine in sonorità gradualmente più heavy, con Roy Z che offre un’altra prestazione degna di nota. Non è un brano di facile assimilazione, ma dopo un paio di ascolti trasmette un senso di soddisfazione, posizionandosi tra i migliori – se non addirittura il migliore – di questo Mandarake Project.

Eccoci finalmente giunti al brano conclusivo di questo atteso album: la tanto discussa e anticipata Sonata (Immortal Beloved). Questo brano si rivela essere il meno immediato e il più impegnativo all’ascolto. È una chiusura maestosa, senza dubbio. L’ultima traccia è un vero tripudio di teatralità e virtuosismi vocali e strumentali, dove è evidente che tutti si sono impegnati al massimo, soprattutto Dickinson e Roy Z nell’ideare un pezzo di tale complessità. Alcuni passaggi vocali ad alto rischio e una conclusione prolungata potrebbero causare qualche momento di stanchezza all’ascoltatore per il ripetersi della parola “Save me now”, ma anche dalla difficoltà di assimilazione per un brano davvero difficile per chi è abituato a sonorità più heavy e dirette. Non piacerà sicuramente a tutti, ma rappresenta un’aggiunta intrigante e sfidante all’album, che dimostra la capacità della band di spingersi oltre i confini convenzionali del genere

Sono trascorsi quasi 20 anni dall’ultima volta che abbiamo avuto tra le mani un nuovo album del cantante britannico Bruce Dickinson. Durante questo periodo, sono stati pubblicati 4 album degli Iron Maiden, e per chi scrive, all’epoca solo un quattordicenne immerso nella stessa musica di adesso ma con uno spirito logicamente più innocente e adolescenziale, c’era un crescente entusiasmo nell’ascoltare e riascoltare quell’ottimo, quasi indimenticabile, Tyranny of Souls. Era l’epoca in cui un giovane appassionato ascoltava la sua musica preferita con fervore, ed è stato proprio quel disco un tripudio dell’essenza heavy che un grande cantante come l’Air Raid Siren meritava. Ora, a distanza di quasi due decenni, possiamo davvero dire di essere soddisfatti di questa lunga attesa? Direi di sì, non ai livelli dell’album precedente. The Mandrake Project, un album su cui si è lavorato per molti anni, rappresenta l’essenza di come un musicista, con un semplice foglio bianco e la sua totale libertà creativa, riesca a esplorare nuove sfaccettature della sua già immensa creatività, senza vincoli o linee guida forzate, un platter ben variegato e quasi mai noioso. Ben tornato, Bruce!

Tracklist:
1. Afterglow Of Ragnarok
2. Many Doors To Hell
3. Rain On The Graves
4. Resurrection Man
5. Finger In The Wounds
6. Eternity Has Failed
7. Mistress OF Mercy
8. Face In The Mirror
9. Shadow Of The Gods
10. Sonata(Immortal Beloved)

Line-up:
Bruce Dickinson – Voce
Roy Z – Chitarre, basso
Mistheria – Tastiere
Dave Moreno – Batteria

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