Donne del Rock: Dolores O’Riordan

Dopo sei anni di lotta contro il cancro il signor Terence Patrick O’Riordan si spense. Esalò l’ultimo respiro nella sua casa a Ballybricken, in un tardo pomeriggio del Novembre 2011, non prima di aver ascoltato l’Angelus che tanto amava, alla presenza di padre padre McNamara – amico di una vita – della moglie Eileen, e dei suoi figli: Terence, Brendan, Donal, PJ, Joseph, Angela e Dolores.

Già: Dolores. Pochi giorni dopo al funerale ci sarebbe stata anche lei, pronta ad affrontare un dolore così intimo davanti ai riflettori a cui sarebbe inevitabilmente stata esposta. Per fortuna all’interno della comunità cattolica della contea di Limerick si era capito che, mai come in quel momento, l’intera famiglia O’Riordan necessitava più che mai di affetto e, in un certo senso, protezione.

E così silenziosamente, uno dopo l’altro, i parenti, gli amici di una vita, i vicini e tutti coloro che volevano esprimere il proprio cordoglio si avvicinavano chi a alla vedova, chi ai figli del buon Terence, per una parola di conforto, un abbraccio, un saluto. Sono quei momenti in cui, tra le lacrime, la stanchezza mai recuperata delle ultime veglie, l’affaticamento anche burocratico dell’organizzazione del funerale, fatichi a connettere. E magari non riconosci una delle tante persone che ti si avvicina, per esprimere il proprio cordoglio, con l’aria di conoscerti da sempre.

Dolores – le disse sottovoce un uomo, che avrà avuto su per giù l’età del padre, in un momento in cui la maggior parte dei partecipanti alla funzione si era già congedata – non mi riconosci?

Eh, no, non lo riconosceva, davvero! Che imbarazzo! Sarà stato un collega del papà? O uno di quei vicini, tanto gentili, che si erano prodigati per loro in quegli ultimi giorni di dolore? Dolores cercava di fare mente locale, a fatica: ancora un po’ confusa, gli occhi ormai svuotati di lacrime, si sforzava di ricordare perché non voleva essere scortese ma – quella fisionomia non le diceva proprio nient… un momento! Oddio! No, non è possibile!


Dolores Mary Eileen O’Riordan nasce, ultimogenita di sette fratelli, il 6 settembre 1971 in una famiglia operaia cattolica di Ballybricken in Irlanda.

Dopo un battesimo all’insegna di quella Mater Dolorosa a cui – per volere della religiosissima madre – deve il nome, la piccola Dolores cresce con un’educazione cattolica in una famiglia modesta (padre bracciante agricolo, madre cameriera) ma molto affettuosa (a proposito dei suoi primissimi anni di vita, ricorderà di aver avuto “the most cosy loving childhood, all huddled up together”). Frequenta le elementari nella mesta Ballybricken, cittadina rurale a vocazione zootecnica, e quando rientra a casa ascolta Elvis Presley, con mamma Eileen, o la musica rock e metal che ascoltavano i suoi fratelli, o ancora la musica folk gaelica che l’affascinava molto (specie The Old Bog Road di Johnny McEvoy).

Si tratta comunque di una parentesi breve. L’acuirsi delle difficoltà economiche porta presto tutti gli adulti abili al lavoro lontano dal focolare domestico per molte ore al giorno. E in quell’ambiente “rude e devoto”, a cui Dolores avrebbe continuato ad attribuire buona parte della sua maturazione artistica, si consuma anche il più grave – e irreparabile – dramma della sua esistenza: “Sono stata molestata dagli otto ai dodici anni: mia madre lavorava fuori casa tutto il giorno per pagare le bollette perché mio padre era invalido a causa di un incidente [avvenuto nel 1960, n.d.r.] che gli aveva provocato danni al cervello, e non aveva idea dell’incubo che vivevo. Vivevamo in un complesso e girava sempre un sacco di gente. Un adulto [secondo alcune fonti, un amico di famiglia] mi molestò per quattro anni, finché non ci trasferimmo a Limerick […]”. Nell’intervista rivelazione rilasciata al magazine irladese Life oltre trent’anni dopo l’inizio della cupa vicenda, Dolores preciserà anche che sua madre sarebbe stata informata del fatto solo molti, molti anni dopo, mentre al padre non sarebbe riuscita a rivelarlo mai. “Vivo questo come un momento di liberazione, di pulizia – sottolinea poi – È un modo di svuotare quell’armadio e dimenticare tutti gli scheletri che avevo dentro. Ora c’è solo la pace e la guarigione. Mi sono tolta un grosso peso dalle spalle. Sento che la scelta di parlarne, di confessarlo anche a tutte le persone che hanno comprato i miei album possa aiutarmi a cancellare definitivamente quest’esperienza. Parlarne e vedere la risposta, la vicinanza delle persone mi aiuta a farmi sentire bene con me stessa. Ed è una cosa importantissima”.

E in effetti qualche dubbio ai fan era sorto leggendo bene il testo della bellissima e struggente Fee Fi Fo (titolo che corrisponde al nostro “Ucci ucci…”): nel 1999, in occasione dell’uscita di Bury The Hatchet, Dolores aveva spiegato con chiarezza (la massima consentita dall’esclusione di riferimenti autobiografici): “That song is about child abuse, and when you listen to it, you hear that kind of fear. This child is being abused by a man, and the man is not going away. When I write a song like that, I try to put real feelings and fears that are part of this topic in there. So there’s darkness, which is such a beautiful vulnerability. Then there’s the anger of the person who’s singing the song”. E poi, in caso non fosse chiaro il concetto: “It’s the worst crime. I think they should be castrated. I just think that people who sexually abuse children get off too easy. They get back out after a couple of weeks because, ‘Oh, he’s psychologically ill’. Which I can understand, but then people get thrown in the can for eight years for smoking dope or something. I think the system is kind of weird that way. It hammers people who are doing harmless things while these perverts, these paedophiles, are shown leniency”.

Sparito – almeno, alla vista – il responsabile di quell’abuso grazie al cambio di residenza, un altro mostro inizia purtroppo a divorarla dall’interno attraverso una bassa autostima e un disgusto di se’ che non l’abbandoneranno mai più, insieme a una forma mai diagnosticata di anoressia – che infierirà ciclicamente su un corpo già minuto – per il resto della sua vita. Ma in qualche modo bisogna pur andare avanti. Dolores entra quindi nell’adolescenza accompagnata dalla musica degli Smiths, dei Cure, dei Depeche Mode, dei Magazine, di Siouxsie and the Banshees, dei New Order, dei REM, dei Kinks… e dei canti gregoriani. Dopo la sua prima canzone (Calling, composta a 12 anni), inizia a esibirsi come solista nel coro della sua chiesa e lì capisce che avrebbe bisogno di mettersi alla prova con qualcosa di diverso sia dalla musica sacra che dalla musica tradizionale irlandese.

Dolores prova con il passaparola, e poco tempo dopo un’ amica le comunica che il suo fidanzato (tale Niall Quinn) lascia libero un posto come vocalist in una band che fa pezzi propri. Il gruppo in questione è nato solo un anno prima (1989) dall’iniziativa di Niall, dei fratelli Noel e Mike Hogan (chitarrista e bassista) e di Fergal Patrick Lawler (batteria) e per nome ha un gioco di parole (The Cranberry-Saw-Us) ispirato dalla salsa di mirtilli rossi. In effetti, perchè non provare?

L’audizione va alla grande, perché Dolores si propone come un imperdibile pacchetto unico: voce, paroliera, compositrice (all’occorrenza), chitarrista e – male non fa – bella presenza (nonostante, per l’occasione, si fosse truccata un po’ pesantemente… e con mano poco ferma!!!). Uno dei fratelli Hogan, ancora scettico, la mette alla prova con una sequenza di accordi a cui stava lavorando e lei, una settimana dopo, si ripresenta con il testo di Linger. Un altro paio di giorni, e mette sul piatto anche Sunday. L’entusiasmo è tale che non esitano a rinnovare il nome della band, che da quel momento diventa The Cranberries. E Dolores è così presa da questo nuovo progetto che si dimentica perfino di completare le scuole superiori…

Ma come biasimarla? Non fanno in tempo a incidere il loro primo demo che diventano gli adolescenti più ricercati d’Irlanda, grazie a un nastro magnetico da cui traspare già la particolarissima cifra stilistica della O’Riordan: un mezzosoprano capace di esplorare morbidamente le note più basse e passare dall’amato falsetto ai lugubri acuti del folklore celtico con la durezza tipica dell’accento di Limerick. Capace di essere tanto leggera quanto feroce e di mutare le disfonie in jodel, la sua voce (in cui anni dopo l’Università di Limerick avrebbe addirittura rinvenuto “[…] forti tracce della tradizione gaelica Sean Nós […] che trasmette così meravigliosamente tristezza, rimpianto e solitudine […]” ) diventa presto un “bene” su cui al resto della band sarebbe addirittura toccato vigilare in sala di registrazione: “Non abbiamo mai applicato l’Auto-tune – dichiararono i suoi colleghi anni dopo – ci avrebbe uccisi!!!“.

Perché per Dolores il canto è la sua vita: “Keep it natural, keep it real” diventa il suo motto. È la fase compositiva che, semmai, non funziona sempre alla prima, anzi: ancora oggi molti attribuiscono la sua dipendenza dai sonniferi alla sua continua attesa delle insonnie notturne per buttare giù testi e accordi. E non sono mancati, comunque, mesi di blocco dello scrittore.

In ogni caso, la Island Records (sì: la storica etichetta che lanciò Bob Marley) si aggiudica gli esordienti del momento: Everybody Else Is Doing It, So Why Can’t We? (1993) schizza ai vertici delle classifiche (grazie soprattutto a Dreams, che rimbalzerà per anni dalle pubblicità alle colonne sonore), ma è con No need to argue (1994) che fanno il botto: con i suoi venti milioni di copie vendute, diventerà il loro album più venduto di sempre. Nel marzo del 1993, mentre è in in tour con i Cranberries per promuovere la loro prima fatica, Dolores scopre che i giovani Jonathan Ball e Tim Parry hanno perso la vita a causa di un attentato organizzato dall’IRA. E dallo sconforto per l’apparentemente irrisolvibile conflitto nordirlandese fa nascere Zombie, inno contro la guerra che sancisce definitivamente il successo mondiale del quartetto di Limerick (disco di platino in Germania e Australia, top 10 in 25 paesi e, a distanza di un anno dall’uscita, miglior canzone del 1995 agli MTV Music Awards). Ma è forse con Ode to my family che Dolores da il meglio di sè: prendendo in prestito la terminologia per lei coniata dal critico Dan Weiss di Stereogum, potremmo dire che la O’Riordan con quel brano inaugura la sua personale tradizione di “intelligenti sculture emotive” che trasformano “progressioni di accordi relativamente semplici e rotonde […] in complesse cascate di vocalizzazione“.

E mentre si riprende dallo shock per la scomparsa di Kurt Cobain, a cui dedicherà il brano I’m Still Remembering, Cupido, forse impietosito da tanta empatia e sofferenza, prova a mettere le cose a posto. Il tour congiunto di Cranberries e Duran Duran (1994) è solo agli inizi quando tra la grintosa irlandese e il “rassicurante” tour manager di questi ultimi è colpo di fulmine. Il 18 luglio dello stesso anno Dolores e Don Burton convolano a nozze presso l’Abbazia di Holy Cross nella contea di Tipperary.

Don ha un figlio da una precedente relazione, Donny Jr., che Dolores considera da subito come suo, e tutti insieme non fanno che tripudiare di gioia man mano che la famiglia cresce: alla nascita di Taylor Baxter (1997), seguono l’arrivo di Molly Leigh (2001) e Dakota Rain (2005). E poiché, dopo un po’, nella medievale Coach House (a fianco al castello di Ballyhannon a Quin nella contea di Clare, Irlanda) iniziano a stare stretti, a fine anni Novanta si trasferiscono nella costosissima e ultramoderna villa (e ricca di comfort, tra cui una discreta sala d’incisione) nei pressi di Dunquin, nella contea di Kerry (penisola di Dingle). Dolores ora è una delle 10 donne più ricche d’Irlanda e non costerà molto l’ennesimo trasloco (2004) nella nuova casa a Howth, nella contea di Dublino, e poi ancora un altro trasferimento, intercontinentale, in una proprietà vicino a Buckhorn, a nord di Peterborough, acquistata nel 1994 e spesso utilizzata come rifugio estivo (per il particolare isolamento offerto dalla capanna di tronchi in cui ama tanto rifugiarsi). Il Canada non è solo la patria di suo marito (e – curiosa coincidenza – la seconda patria della “fortunata” salsa di mirtilli rossi, seppur in una versione meno aspra): per Dolores è un’occasione di ritorno alla normalità; passeggiare per strada nel più totale anonimato, fare la volontaria presso la scuola frequentata dai propri figli, e altre piccole cose inaccessibili a chi è costretto al bagno di folla ogni volta che mette il naso fuori di casa. Una situazione particolarmente stressante, soprattutto per il fatto di non riuscire a vivere appieno il ruolo materno in cui, invece, si sente molto a suo agio: “I am a different person than I was two years ago. Women are extraordinary creatures really, you know, I mean the fact that we can give birth, what the bodies can do is pretty amazing, and feed, feed children with your own body […] It’s a pretty cool thing really, and it does change you, it makes you a lot more confident and happy in yourself makes you more thankful.

Una certa tristezza, mista a rabbia e sofferenza, trapelava, a dirla tutta, già in To the Faithful Departed (1996), e non solo per via dei brani più socialmente e politicamente impegnati (come War Child o Bosnia, a proposito della quale la O’Riordan dirà: “I don’t care who wins or who rules, but if I see children suffering, it bums me out“) che puntano il dito contro gli orrori interni al “civile” e ipocrita mondo occidentale. In quello stesso anno due persone care a Dolores, “nonno Joe” e l’amico e produttore Dennis Cordell-Lavarack (molto legato anche al resto della band e che per questo meriterà una canzone dedicata) vengono meno, amplificando quel senso di vuoto ben espresso nella toccante e commuovente When you’re gone (divenuta poi, negli anni, la canzone del cordoglio per antonomasia: “I wrote this song for certain reason – avrebbe rivelato la cantante in seguito – but over the years it became something different, songs grow and it means something different to me now. Every time I sing this song I can see my grand-parents, ‘cause when people died, did they really go? Or are they with us? You know you wonder. Well, I can see my grand-parents…[…]“). E poi, di sottofondo a tutto questo, ecco il malessere sottile ma persistente, la scatola magica in cui credeva di essere entrata e l’ossessivo panopticon mediatico in cui si deve invece svegliare ogni giorno: “The media started giving me a really hard time. There were just pictures of me kind of shopping, packing my groceries, on the front cover of all the magazines, all the Irish papers and stuff like that. And it was just kind of really bitchy on their behalf. And they were just saying that I was being a little pop star, and I was pulling the Irish shows — not caring, obviously, about how I felt as I person, as one side of the media can be like that. It can be very insensitive and uncaring towards many types of artists, you know?” Questo e molto altro confluisce nella più grintosa Free to decide, ma alla carica apparente si sostituiscono crescenti segnali di cedimento. L’annullamento di concerti, per esempio: “I’d been on tour for a year or so and I was feeling sick, so we canceled a few gigs we had in Ireland. And I woke up one morning when the doorbell rang, and there was a man standing at my door with a camera, and he said, ‘What? Leave’. I was frightened. […] I work too hard, and If I want to take three weeks off I’ll take them, and to hell with everybody else – it’s my life”.

Intendiamoci, ad alcuni concerti non se lo sogna nemmeno lontanamente di dare forfait. Non al Pavarotti&Friends tenutosi a Modena nel ’95, per esempio. E nemmeno al concerto, anzi, ai concerti di Natale in Vaticano (ben tre: 2001, 2002, 2005 e, più recentemente, 2013, su invito di papa Francesco. Ma secondo molti il suo papa preferito è rimasto Wojtyla). Tuttavia, se potesse, si sottrarrebbe alla luce dei riflettori come un vampiro a quella del sole.

Forse, allora, non è un caso che la copertina del quarto album dei Cranberries, Bury the Hatchet (1999) sia ispirata al Grande Fratello di Orwell (un tema piuttosto cupo per canzoni incise quasi tutte presso Le Miraval Studio nella rilassante Francia meridionale… e mentre si è pure in stato interessante!). Altro che seppellire l’ascia di guerra… Se escludiamo l’inno alla maternità nella sua componente più istintiva e ancestrale di Animal Instinct (nel cui video Dolores appare candida e leggiadra come una moderna discendente di certe fate celtiche), alcuni brani sembrano piuttosto pungenti; è il caso di Promises (eseguita live al Nobel Peace Prize Concert di Oslo del 1998, secondo alcuni rivelerebbe gli esordi della sua futura crisi matrimoniale), di Loud and Clear e, soprattutto, della bellissima ma straziante Fee Fi Fo. L’album, nemmeno a dirlo, è l’ennesimo grande successo (cui seguono a breve nuove edizioni) e il best of nel 2002 è d’obbligo. Ma a quel punto qualcosa davvero si rompe.

Nel 2003 la band arriva con intelligenza e discrezione all’unica opzione percorribile in quel momento: sciogliersi. L’ex ragazza di campagna non riesce più a conciliare le sue priorità (la natura, la spiritualità, la famiglia) con le tournée; e l’ha capito dopo troppi anni di “caffè&sigarette”, troppi dimagrimenti e troppe aggressioni mediatiche (un esempio per tutti, questa critica su un Melody Maker di fine anni Novanta: “You can actually see the mean-spiritedness of her thoughts imprinted on her pinched little face“).

Ripresi i propri tempi e i propri spazi, Dolores va incontro a nuovi successi e nuovi featuring (tra cui la collaborazione alla colonna sonora di La passione di Cristo di Mel Gibson, e l’esecuzione di Pure Love in Zu & Co. di Zucchero Fornaciari), che la portano, nel 2007, allo sperimentale ed elegante Are you listening? (con tracce come Ordinary day – dedicato alla figlia Dakota – e When we were young che riscuotono un buon successo di pubblico, e altre più “personali”, come Black Widow, composta nel 2003 dopo la morte per cancro della suocera) e nel 2009 all’intimo e raffinato No baggage (contenente diversi brani, come The Journey , Fly through o Lunatic, che sono stati un po’ sottovalutati nonostante la pregevole esecuzione, forse perché un troppo pop rispetto al repertorio che l’ha resa famosa).

La pausa ristoratrice produce i suoi frutti e Dolores si sente pronta per ricominciare, almeno musicalmente: e così, in occasione dell’uscita del suo secondo album, annuncia la reunion della band, per la gioia dei fan e del mercato discografico. Dentro di se’, invece, l’angoscia per l’amato padre lentamente divorato dal cancro non l’abbandona.

Purtroppo, arriva anche per il buon signor Terence il momento di abbandonare questa terra e, per i suoi congiunti, di salutarlo un’ultima volta. E Dolores, dicevamo, è lì, a funerale concluso, che sta cercando di riconoscere nella fisionomia dell’uomo che l’ha avvicinata un volto noto, se non familiare. Poi, come trafitta da un fulmine, ha un sussulto.

Quanto, come può vivere un mostro?

Mantiene una consistenza propria, anche se ci imponiamo di dimenticare, o resta tale solo finché il suo status è confermato dal perdurare delle nostre paure?

Che in Dolores un mostro abbia continuato a esistere l’abbiamo letto tra le righe dei suoi testi, o appreso dalle sue interviste. Cosa sia accaduto invece al mostro, in tutti quegli anni, non ci è dato saperlo. Sappiamo però che costui – come rivelerà, in alcune interviste, la O’Riordan stessa – appresa la scomparsa del padre di lei, penserà bene di raggiungerla in occasione delle esequie e sollevarsi la coscienza farfugliando le proprie scuse.

Per un approfondimento dei costernati “Ah, se l’avesse fatto a me…!!!!!!” scaturiti dall’apprendimento dell’intera vicenda, si rinvia alla moltitudine di commenti affidati al web dalle affezionatissime fan di tutto il mondo (e, fidatevi, molti li capirete anche senza traduttore automatico). Tutti quei “se” però non la riguardano: Dolores affronta questo ennesimo affronto con contegno esemplare.

In verità l’episodio squarcia definitivamente una ferita mai rimarginata (“Odiavo me stessa e sapevo il perché – avrebbe poco dopo confidato a un giornalista del Daily MirrorE sapevo perché desiderassi tanto sparire“). E va circostanziato anche all’interno di una ulteriore crisi, professionale e anagrafica, a cui Dolores, questa volta, si affaccia senza alcuna consapevolezza: la sua voce, innanzitutto, che matura e cambia contro ogni previsione, ponendola nell’inaspettata condizione di doversi reinventare alla soglia dei quarant’anni. E poi un carico familiare non indifferente (dato dalla responsabilità verso vari parenti ormai dipendenti da lei per la propria sussistenza) che rende ancora più sgradevole il già inevitabile baratto tra introiti economici (sempre più ridotti, nell’era del digitale) e spontaneità espressiva.

Non le resta quindi che concedersi nuovamente alla folla e a qualunque cosa sembri “fruttare”: è in giuria nell’edizione irlandese di The Voice (2013); si ricicla in un progetto sperimentale (The D.A.R.K.) con Olé Koretsky e Andy Rourke (ex bassista degli Smiths), inizialmente contattati per la registrazione di alcuni nuovi brani dei Cranberries; cerca di fare pace con se’ stessa (nonostante le frequenti ricadute nella depressione, che le verrà diagnosticata solo nel 2015) e ricomincia a tollerare i giornalisti. Non si sa bene che ripercussioni abbia tutto ciò sulla sua vita privata, che è l’unica cosa che continua a difendere con ostinazione. Ma qualcosa lo possiamo provare a ricostruire, ad esempio, dai commenti con cui i giornalisti di turno introducono le sue interviste. Così incontriamo una Dolores sfuggente, evasiva, stanca, distaccata dal contesto. E ci sembra proprio di vederlo, suo marito, Don, che pazientemente accoglie il giornalista di turno, lo fa accomodare mentre riacciuffa la moglie che vaga scalza e un po’ assente per il camerino (sussurrandole amorevolmente: “Dolcezza, dove sei…? Vieni, è il momento dell’intervista” e aggiungendo, scarpe in mano: “Prima di uscire di qui dovrò obbligarti a metterle“) e finge poi di assentarsi per lasciarli parlare (ma in realtà resta dietro la porta per assicurarsi che vada tutto bene). Capiamo che probabilmente ci sfugge qualcosa di importante quando quella stessa donna, così schiva e fragile, viene arrestata all’aeroporto di Shannon, in Irlanda (alla fine di un volo partito dall’aeroporto John F. Kennedy, a New York) e poi trattenuta 24 ore presso sezione del Criminal Justice Ac, mentre la compagnia aerea, glissando sul poliziotto e sulla hostess aggrediti a bordo (e sul ricovero in ospedale di quest’ultima), chiude la faccenda con un: “Un incidente si è verificato a bordo del volo El 110. La questione è oggetto di investigazione da parte della polizia irlandese. La compagnia non rilascerà altri commenti“.

Ma qualcosa di importante sfugge soprattutto a lei, non solo perché, dopo il suo incidente sull’aereo, sfiora la condanna detentiva (commutata in una sanzione pecuniaria da seimila sterline solo “grazie” alla certificazione della sua bipolarità seguita a tre lunghe settimane in ospedale psichiatrico), ma anche perché dopo vent’anni il suo matrimonio è davvero finito (e, con esso, il suo ruolo genitoriale, visto che al “diverbio” con la hostess segue anche l’affido dei figli a Burton). E lasciamo ai lettori la ricostruzione delle implicazioni esistenziali che può acquisire il divorzio per una persona come lei, credente e molto gelosa della propria spiritualità: “[…] the English press tend to go over the top because they are fascinated by Catholicism – `Wow, you have a religion.’ I suppose in America it would be even more chaotic, they’d ask if we were born again.“)

Non le resta che il lavoro; e tra i suoi collaboratori, probabilmente, solo Olé intuisce che la sua grandezza è data anche dal baratro che periodicamente si spalanca sul suo mondo interiore. Iniziano a frequentarsi. Una relazione fatta di piccole cose e brevi incursioni nella (cosiddetta) normalità: serate “Take away, tv, pigiama” (come Olé stesso avrebbe twittato una delle ultime serate insieme); l’ennesimo album con i Cranberries; qualche serata con gli amici; un’intervista molto equilibrata in cui conferma che la parte più bella del suo lavoro è “[…] when you go on stage and you have a really good time and everything sounds great and you have a great performance and you get a great reaction from the crowd“…

Da quasi due anni Dolores condivide la sepoltura con l’amato padre: una sobria lapide di marmo nero li ricorda entrambi, stagliandosi tra le croci celtiche del cimitero di Caherelly, vicino Limerick.

È stato travagliato anche il suo percorso per arrivare fino là: il ritrovamento – alle 09:05 del 15 gennaio 2018 – del suo corpo esanime (e con il viso rivolto verso il basso) nella vasca da bagno della camera 2005 dell’Hilton hotel a Park Lane di Londra; la sua agente, Lindsey Holmes, che diffonde la notizia: “La cantante della band irlandese The Cranberries era a Londra per una breve sessione di registrazione. Non sono disponibili al momento ulteriori dettagli. I familiari sono distrutti dall’aver appreso la notizia e hanno chiesto di rispettare la loro privacy in questo momento molto difficile“; l’imbarazzo di Scotland Yard, che forse si rende troppo tardi delle gravi conseguenze che potrebbe avere una morte sbrigativamente dichiarata “non spiegabile” (in circostanze che escludono categoricamente l’omicidio) per la religione cattolica; gli amici e i colleghi che si affrettano a fornire gli opportuni elementi “chiarificatori”: era felice, sostiene ad esempio la conoscenza di vecchia data (nonché amministratore delegato della Eleven Seven Records) Dan Waite, anzi, gli aveva proposto una cena a quattro, con i rispettivi partner, e poche ore prima di morire aveva pure mandato un vocale da 30 secondi, entusiasta (“Ciao Dan, sono Dolores, sono a Londra, sono al Park Hyatt Hilton. In realtà, penso che sia fottutamente fantastico! Sembra terribilmente bello!“) a proposito di una collaborazione con i Bad Wolves di cui avrebbero dovuto discutere tutti insieme, il mattino seguente; altri amici (quelli veri?) che ricordano invece che no, non era affatto felice, anzi, aveva già cercato l’overdose qualche anno fa, ma poi ci aveva ripensato, per amore dei figli; qualche fan che ricorda l’improvviso annullamento del tour dei Cranberries, l’estate precedente, ufficialmente giustificato con un “I medici hanno ordinato a Dolores O’Riordan di non riprendere il tour come programmato, affinché possa completare le terapie che sta seguendo e raggiungere una piena guarigione” (e, all’epoca, tutti pensarono alla sua ernia del disco); i funerali alla presenza di sole 200 persone (ma anche trasmessi in diretta da Limerick Fm Radio), concelebrati da padre Liam McNamara e altri alti prelati, nella stessa chiesa di St Joseph’s in cui lei iniziò a cantare, tanti anni fa; il medico legale Shirley Radcliffe che, qualche mese dopo, chiude definitivamente la querelle intorno agli “inspiegabilmente alti” livelli di alcool (e Fantanyl!) rinvenuti durante l’esame autoptico con un: “Non esistono prove che questo sia stato qualcosa di diverso da un incidente. Non c’era l’intenzione, la sua morte sembra essere solo un tragico incidente“; gli altri membri dei Cranberries che ammettono pubblicamente che non ha più senso continuare a produrre musica senza di lei; e, last but not least, i Bad Wolves che registrano la cover metal di Zombie anche senza Dolores, ma donano il ricavato ai figli di lei.

Se mai vi recherete sulla sua tomba, scoprirete che tutta la bellezza e l’amore profusi nel corso della sua breve esistenza non hanno mai smesso di tornare al mittente: chi lascia un fiore, chi un pupazzo, chi un biglietto. E tra i milioni di fan che sentono la sua mancanza, molti sperano che almeno abbia trovato la pace.

Noi non possiamo che accodarci a questi ultimi, augurandole anche, ovunque sia, di trovare la risposta alla più tormentata domanda della sua carriera musicale:

It’s true what people say:
God protects the ones who help themselves in their own way.
And I often wondered to myself:
Who protects the ones who can’t protect themselves?

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