Se è vero che le rivoluzioni devono avere (anche) un’origine borghese, i natali di Patti Smith avvennero con tutti i crismi.
Figlia della piccola borghesia americana del secondo dopoguerra, Patricia Lee Smith crebbe in un clima familiare stimolante, che non la ostacolò, almeno moralmente, nella sua precoce vocazione poetica (anzi: fu proprio la madre a iniziarla alla lettura di William Blake). Nata a Chicago nel 1946, traslocò poi in altre città insieme con i genitori e gli altri fratelli e sorelle che sarebbero nati negli anni successivi: tante bocche da sfamare per le modeste entrate familiari, che indussero la Patricia sedicenne a trovare impiego in una fabbrica di passeggini del New Jersey. Ma quella vita non faceva per lei. Nelle interviste di molti anni dopo Patti, ormai già “battezzata” sacerdotessa maudite del rock, avrebbe ricordato, a proposito di quegli anni, la necessità di evadere dalla prevedibilità e dall’insensatezza di quella vita di provincia, l’urgente bisogno di essere contaminata, finanche “rovinata“, dall’immersione nella vita brulicante della City. Comunque, in parte per il conflitto tra vocazione e possibilità concrete, e in parte – forse – anche per l’improvviso confronto con una gravidanza inattesa (che la poneva davanti ad almeno alcuni compromessi con la vita routinaria cui era tanto insofferente), a vent’anni mollò tutto (inclusa la figlia, presto data in adozione) e salì su un treno per la Grande Mela: “I perceived I would rather live on the subways and sleep on the streets of New York and try to find something better to do with my life, than choose living in a cheap little place – trying to divide my pennies between a little bit of food and a little bit of clothing. Working in this hot, sweaty, shitty factory – to me it was all a matter of choice and imagination. It felt like a lot of people were happy to be like cattle in the factory, and never rebel against the fact that it was 110 degrees and there were no windows. […] I was concerned about the common man, and I was trying to remind them they had a choice.”
Il suo primo incontro importante fu con Robert Mapplethorpe o, come sostengono altri, fu lui a notare lei. Era il 1969: entrambi senza un soldo (ma sempre con qualche “sostanza” in tasca), lei con qualche poesia (e tanto carattere), lui (scampato all’associazione paramilitare tanto gradita a papà) armato di sola macchina fotografica. Tutti e due con sogni più grandi di loro ma sentiti come raggiungibili, se perseguiti con fame e determinazione: erano gli anni delle prime grandi manifestazioni femministe, dei movimenti di emancipazione degli omosessuali e… della diffusa sperimentazione di droghe. Il loro amore, vissuto intensamente e dissolutamente nella stanzina condivisa nello storico Chelsea Hotel, si sarebbe trasformato poi – anche per la maggiore presa di coscienza di Robert della propria omosessualità – in un’inscalfibile amicizia, determinante per la carriera di entrambi. Lei poserà spesso per lui nei primi scatti che l’avrebbero reso famoso. E lui realizzerà per lei la celeberrima copertina del suo disco di esordio, Horses (1975), ritraendola in abiti maschili e con una posa che omaggiava Frida Kahlo.
Ma andiamo con ordine. Quando Patricia divenne Patti, era “solo” un’artista che dipingeva, poetava e appendeva fogli alle pareti del suo (modesto) alloggio: per quanto oggi rappresenti innanzitutto un’icona del rock, Patti arrivò in modo del tutto involuto e casuale alla musica. Come avrebbe dichiarato successivamente, “scrivere canzoni nacque dall’atto fisico di disegnare parole”. Infatti, proprio il suo declamarle in pubblico nei luoghi della sperimentazione artistica e musicale newyorkese (in primis il CBGB’s del manager Hilly Kristal ) favorì la nascita del suo primo progetto musicale. Non che fosse una che fa una buona impressione alla prima, anzi: un atteggiamento al limite della supponenza, principale alimento della “fortunata incoscienza” che la guidò in alcune scelte difficili della sua vita, la rese semmai spesso antipatica. E forse per mera antipatia alcuni, ancora oggi, sostengono che Patti, in tanti anni, non abbia nemmeno imparato accordare la chitarra. Ma lei se ne cura il giusto. Anzi, racconta divertita che non ha mai avuto bisogno di accordare la splendida Gibson regalatole da Hiram “Hank” King Williams in persona proprio negli anni in cui faceva la modella per Robert: le è sempre bastato mostrarla a qualche amico musicista per sentirlo reagire con un: “Bella chitarra! Posso provarla?”. E lei acconsentiva alla prova, immancabilmente preceduta dall’accordatura.
Tornando a Horses, comunque, possiamo dire che fu l’album giusto al momento giusto, e lo sarebbe stato anche con le chitarre completamente scordate: il linguaggio proposto anticipava infatti proprio quelle rotture (sonore e simboliche, tanto rispetto ai canoni musicali che rispetto ai moralismi della società: “My sins my own | they belong to me, me.“) che sarebbero poi state proprie del punk.
Incurante del 47° posto raggiunto nella Billiboard 200 del 1976, Patti insisteva a consumare e consumarsi, voracemente, nelle più disparate esperienze artistiche: dall’incontro con Sam Shepard scaturì un rinnovato interesse per la drammaturgia; nella frequentazione del Pratt Institute affinò le proprie attitudini pittoriche. Alcuni la ricordano persino come attrice in una modesta (e forse un po’ improvvisata) parodia wharoliana, oggi rimossa dalle biografie ufficiali. Ma che importa: erano anni in cui non l’avrebbe potuta fermare nessuno. Dischi d’oro seguirono alla sua collaborazione con i Blue Öyster Cult, per i quali scrisse Career of Evil e Baby Ice Dog (con la prima delle due che, a dirla tutta, nacque come poema in onore del poeta francese Isidore Ducasse). Sempre più lettori compravano il suo libro di poesie (Seventh Heaven, del 1972), nonostante fosse stato pubblicato da una piccola casa editrice. E il “monologo” piano e voce Piss factory (1974), singolo d’esordio registrato grazie all’ora di sala prove generosamente offerta da Mapplethorpe e poi distribuito manualmente (!), si diffondeva a macchia d’olio tra i giovani per la carica eversiva con cui denunciava l’alienazione (da lei sperimentata in prima persona) del lavoro in fabbrica. E diventava anche fonte d’ispirazione per nuove generazioni di musicisti: il pezzo è oggi considerato, non a caso, il primo brano new wave.
Con o senza musica, Patti Smith era diventata una voce: la voce degli oppressi, dei diseredati, ma anche la voce degli americani di buon cuore, del lato migliore di quella nazione in cui credeva e a cui sentiva di appartenere profondamente, nonostante tutto. Tra chi ebbe il privilegio di conoscerla in quegli anni, ci fu qualcuno che si sciolse in lacrime a sentirla ancora declamare, molti anni dopo, durante un concerto: “La mia generazione! Noi avevamo dei sogni! E invece abbiamo creato George Bush! […] Cambiate le cose! Il mondo è vostro, è nostro, è della gente!”.
Una voce che, però, non si identificò mai del tutto – né mai si lasciò imbrigliare – nel ruolo di cantante.
Con Radio Ethiopia (1977) il Patti Smith Group iniziò a perdere colpi. Anzi, dovremmo dire che dopo quell’album Patti i colpi li prese proprio: una terribile caduta dal palco durante un’esibizione a Tampa le impose una convalescenza lunga, durante la quale si temette persino che l’artista perdesse l’uso delle gambe. Ma come già accaduto nella sua vita, a una grande sofferenza seguì un’altrettanto grande ripresa creativa. Forse per simboleggiare la sua rinascita, Patti intitolò l’album del 1978 Easter. E ancora una volta un ringraziamento andava anche a un amico: Bruce Springsteen. Il buon Bruce, all’epoca “vicino di studio di registrazione”, le donò un brano che non sarebbe riuscito a far confluire in Darkness on the Edge of Town (in uscita nello stesso anno) e lei, adattando il testo al suo essere donna (e dedicandolo a Fred “Sonic” Smith dei Detroit MC5, sposato poi nel 1980), ebbe finalmente la sua prima canzone veramente strutturata come tale, nonché un nuovo successo internazionale: Because the night.
Finiti gli anni della turbolenza sentimentale (il noto – e consensuale – triangolo amoroso con Allen Lanier dei Blue Öyster Cult e con Tom Verlaine dei Television) e le ristrettezze economiche di quando sbarcava il lunario come commessa di una libreria, dal felice esilio domestico nella verde dimora di Fred a Detroit nacquero due figli, Jackson (1981) e Jessica (1987), e quello che forse possiamo considerare l’ultimo grande album della sua carriera, Dream of life (1988).
I precedenti Wave (album del 1979 dedicato alla “meteora papale” Giovanni Paolo I) e Babel (raccolta cartacea del 1978 che raccoglieva, forse un po’ confusamente, “prediche dal palco” e poesie) vennero presto dimenticati, nonostante ovunque venisse ormai osannata come “regina del punk rock”. Dream of life determinò invece il suo ritorno in pompa magna, malgrado – a distanza di 10 anni – il suo anticonformismo e i suoi slogan cominciassero a diventare un po’ stereotipati. Ma per Patti valeva ancora la pena di insistere, nel nome della sua missione: “[…] comunicare, svegliare la gente”, rispondere “emozionalmente come una levatrice, una madre, un’artista e un essere umano. Tutti abbiamo una voce e abbiamo il dovere si usarla”.
L’artista, la poetessa (che Allen Ginzberg ammonì con un: “Ricorda che siamo mortali, ma la poesia no“), la ribelle avrebbe dovuto ancora una volta affrontare un periodo di indicibile dolore: prima la morte di Mapplethorpe per AIDS (1989), poi le inaspettate scomparse del fratello Tod e del marito Fred (1994), l’avrebbero portata allo stremo delle forze emotive. Ma lei, ostinatamente resistente come sempre, sarebbe risalita riemergendo anzi – è lei stessa a sottolinearlo – come una persona migliore.
Musicalmente e poeticamente parlando gli anni successivi non riuscirono a competere con i tempi d’oro, nonostante qualche collaborazione importante (come quella per E-Bow the letter dei R.E.M., 1993) e il buon riscontro ottenuto con il singolo Glitter in her eyes, del 2000 (per cui venne candidata a un Grammy Award come miglior voce femminile rock). Per la critica dell’epoca i contorni meno definiti delle ultime produzioni tradivano un “disorganizzato” bisogno di staccare con il passato. Ma tale ipotesi non sembrava trovare riscontro nella sua instancabile attività di “predicatrice”, che ritornava invece fino allo sfinimento su concetti come “Lascia più che una traccia!” o “Per la salvezza del Pianeta dobbiamo unire le forze. Non si può fare la guerra. Non esiste la giusta causa. NO ALLA GUERRA!” La stampa è comunque diventata sempre più severa nei suoi confronti, e dall’accusa di eccessiva irrequietezza (che ha fatto di nuovo capolino per un bacio sul palco all’headliner Bob Dylan, nel 1995, durante un concerto successivo all’album Gone Again) a quella di troppo autobiografismo (musicale, poetico, drammaturgico) il passo è stato breve.
Ma a noi non importa. L’eredità della Smith è ormai resa eterna da uno stile esecutivo che è il suo messaggio. E viceversa.
Come cantava (e continua a ricordare nei discorsi a favore della Pace e degli ultimi): “I miei sogni non conoscono la paura./ Il mio cuore è pieno di speranza/ Cambierò tutto/ Non importa cosa mi dicono/ O quanto sembra impossibile/ Abbiamo il potere/ L’abbiamo già fatto prima/ E lo rifaremo/ Siamo indistruttibili/ Anche quando siamo stanchi”.
Forse è arrivato il momento di ascoltarla davvero. Perchè, sì, potrebbe aver ragione lei: qualunque cosa accada, people have the power.